Testo pubblicato su psychiatryonline.it sezione Psicoterapie Maggio 2020
Nel paesaggio del post-umano ,passando per le protesi tecnologiche offerte da modelli sempre più sofisticati di superamento del limite dell’umano, si inserisce l’avanzamento verso l’Intelligenza Artificiale. La sua radicalizzazione nella sintesi uomo-macchina risponde “all’imperativo contemporaneo di godimento del puro esercitare il potere della potenza , scenario di dissoluzione del soggetto”[1].
Si tratta di avere a che fare con l’introduzione di una logica che, già a partire dal virtuale, esclude il corpo, il corpo parlante, il corpo dell’individuo marchiato dalla traccia dell’Altro e introdotto attraverso ciò al suo essere soggetto. Una logica che tenta di smaterializzare la specificità dell’essere umano in quanto parlessere [2], ovvero come nascita di ciascuna singolarità dal linguaggio che affetta il corpo e che lo puntualizza nel suo particolare essere di godimento.
Nel ’75, nel Seminario XXIII, Il Sinthomo, J.Lacan affronta di nuovo la questione del corpo, affermando che è l’unica consistenza del parlessere, radice dell’immaginario:
“[..] ma il suo corpo è la sua sola consistenza. Consistenza mentale ben inteso […]. È già abbastanza miracoloso che sussista per il tempo della sua consumazione, che è, dunque, per il fatto di dirlo, inesorabile. Non ci si può fare niente, essa non si riassorbe. Certo il corpo non evapora, e in questo senso è consistente.”[3]
Attraverso lo spunto offerto dal cinema distopico, cercherò di toccare la questione della corporeità nel rapporto con l’altro e con se stessi, mettendo un po’ di luce sui possibili gli effetti della sua esclusione.
Il film è Zoe, dalla regia di Drake Doremus.
Cole risponde al dolore della separazione dalla moglie, avviando un progetto di ricerca e realizzazione di macchine per verificare la compatibilità di coppia e soprattutto si immerge nel progetto di creazione di “partner sintetici”, creando il primo prototipo di intelligenza artificiale: Zoe. I “partner sintetici” rispondono empaticamente e capiscono sempre, non tradiscono e non lasciano mai, consentirebbero agli umani di preservarsi dalla sofferenza insita in ogni incontro con l’altro del desiderio e dell’amore. Garantiscono relazioni di coppia perfette, realizzano l’armonia dell’Uno ovvero quel che è impossibile tra parlanti.
Cole, nel suo laboratorio di intelligenza artificiale dove trascorre le giornate, cerca di colmare il fallimento, la mancanza, la solitudine, l’inevitabile inciampo e imperfezione di ogni rapporto, e la sua palpabile sofferenza, fino a credere di poter avere una relazione con il suo prototipo, Zoe, che lui stesso ha programmato e tracciato con i suoi ricordi, avere una relazione con una stessità.
Zoe è programmata per riparare alla sua storia personale, per essere la risposta ultima e perfetta alla sua mancanza-ad-essere. La compagnia di Zoe è dell’ordine di: non un inciampo, non uno scarto, non un malinteso, non una grinza, la trova sempre lì dove lui l’ha codificata, nulla sfugge.
La sua costruzione sembra sorreggere la realtà, è la sua realtà, fino a quando Cole è colto da turbamento di fronte all’assenza di corpo umano in Zoe. A seguito di un incidente in cui una macchina la investe, sotto la pelle sintetica lacerata Cole vede il silicone e le luci diffuse degli impulsi elettrici, niente degli organi reali del corpo, è un corpo senza organi. Irrompe sotto gli occhi e tra le mani di Cole qualcosa dello sguardo su di sé, come se improvvisamente si vedesse vedersi, c’è un risveglio.
“Che cosa vuol dire consistenza? Vuol dire ciò che sta insieme, ed è per questo che è qui simbolizzata da una superficie. In effetti, poveri noi, la nostra idea ci viene da ciò che fa sacco o straccio. È la prima idea che ne abbiamo . Persino il corpo lo sentiamo come pelle, pelle che trattiene nel suo sacco un mucchio di organi.”[4]
È ciò che spacca la scena per Cole, la tenuta illusoria si strappa, fa irruzione nuovamente la divisione soggettiva che aveva cercato di suturare, l’altra scena ri-torna con tutta la sua portata straniera.
Il corpo viene ad essere il reale che lo ferma, quell’impossibile di cui può dimenticarsi, fare come se non ci fosse, non volerne sapere niente, ma che ritrova appena girato l’angolo; ed è un incontro che lo travolge, è perturbante nella sua inequivocabile consistenza e gli rimanda con intensità lacerante la sua umana sofferenza, quella da cui fugge.
Tale risveglio gli farà abbandonare il laboratorio di I.A e Zoe, comunicando all’ex moglie, che lo invita invece -fino alla fine – a continuare nel suo rapporto con il partner sintetico: di “non poter andare oltre” .Seguono mesi in cui vive la tristezza lunga e immobilizzante di una perdita, è lui stesso a perdersi, a lasciarsi cadere, non ci sono per lui appigli a cui aggrapparsi, è solo ed isolato, di una solitudine radicale che non fa frontiera con l’Altro.
Nel film lo spazio dell’ ex coppia in carne ed ossa non trova approfondimento, ma ai bordi della scena sembra affiorare la risposta di Cole alla moglie: farsi scarto non-disturbante dopo la fine del loro matrimonio. Nell’impossibilità di vivere il proprio lutto per la separazione viene a essere la sua ricerca di un “oggetto” che possa tenerlo in piedi, al riparo da quel “disturbante” che lo disorienta e lo affonda.
Si ferma sulla soglia della possibilità di ascoltare la propria umanità scansata ad ogni costo, per ritornare, ancora una volta spinto dall’ex moglie, da Zoe, che si fa voce della verità di lui: “Nulla di tutto ciò sarà mai reale” scoprendosi un lembo della sua pelle sintetica sotto lo sguardo disperato di lui. L’avere un corpo, che gli è rimandato dall’assenza di corpo in Zoe, è ciò che risveglia Cole ogni volta, in merito alla differenza, a quell’alterità per lui insostenibile, insopportabile, a ciò che gli sfugge nella sua vita in quanto soggetto.Escluso il corpo, Cole costruisce Zoe nella logica del bisogno, ristabilendo quel versante a cui si tiene, ma che di fatto non lo conduce ad un punto di pacificazione soggettiva.
Il film termina sullo smarrimento del protagonista, sulla supplica al partner-sintetico, di chi non riesce a costruire un altro modo per avere a che fare con la propria fragilità di soggetto. Nel post-umano la soggettività si dissolve e cede il posto all’illusione di una possibilità senza limite, quella di poter risolvere una volta per tutte l’ enigma della soggettività e del suo rapporto con l’altro, riducendo il corpo a immagine e la parola a comunicazione.
Il miraggio è di esaurire definitivamente l’equivoco e il malinteso con l’altro, che trovano il punto più radicale nella relazione tra i sessi, nel rapporto uomo-donna, nei legami; lì dove qualcosa si ripete, come irrimediabilmente non del tutto padroneggiabile, sfuggente al soggetto che è sempre diviso rispetto a quell’alterità che incontra attraverso l’altro e che lo riguarda intimamente, e che è umanamente causa della sofferenza.
Non vi è scrittura di sé e del legame con l’altro se non sul corpo e a partire dal corpo, e dunque nell’irriducibile alterità e differenza, che rende sempre diviso e sfalsato, mai puro e combaciante, il rapporto con se stessi e rende impossibile la realizzazione di un rapporto perfetto e di garanzia con l’altro.
Ciascuno si trova a fare i conti con ciò, però con una tendenza esacerbata nella contemporaneità a volerne ammutolire il tintinnìo scomodo.
Per la filosofa Rosy Braidotti, allieva di Deleuze, il post-umano si propone come una mutazione antropologica, promuove uno spazio vitale Zoè, cui partecipa il mondo sensibile e che si estende all’inorganico. La soggettività dunque non è caratteristica dell’antropos , non richiede riconoscimento , ma si basa su una molteplicità di relazioni ove il soggetto scompare in un’estasi radicale sparendo nel campo di forze non-umane. Nel film possiamo cogliere ciòche questo spazio vitale Zoè è per Cole: nella sua costruzione di Zoe, il suo andare oltre nello smarrimento di sé.
[1] Convegno “Postumano: Il corpo tra psicoanalisi, biopolitica, realtà virtuale e arte”, Napoli, Maggio 2016
[2] J.Lacan, Il Seminario, Libro XX, Einaudi
[3] J.Lacan, Il Sinthomo, Libro XXIII, Astrolabio, p.62
[4] Ibidem, p.61.