Testo pubblicato in http://www.psychiatryonline.it/, sezione Psicoterapie, maggio 2020
“L’unica condizione esigibile per colui che vuole farsi partner del soggetto psicotico è legata al sapere, alla posizione che si prende in rapporto al sapere. È la posizione del saper non sapere al posto del bambino, dell’associarsi all’atto del soggetto psicotico, nell’etica dello scilicet, ovvero è permesso sapere.” [1]
“Rinunciare ad applicare il sapere sul bambino, non significa fare professione di fede di ignoranza. Non sapere non significa non volerne sapere niente, ma attuare l’operazione analitica dalla posizione etica di un desiderio avvertito, la sola via per evitare la «normalizzazione psicologica» e la «moralizzazione razionalizzante» che minacciano ogni istituzione” [2].
Nella clinica dell’autismo ciò che si rileva come necessità è imparare a saperci fare con il non simbolizzabile, in una logica indipendente dal senso, una clinica più dell’atto che dell’interpretazione.
È una pratica che si snoda sull’impossibile a dirsi, come ciò che non cessa di non scriversi, che riguarda il reale, ma non come orrore da recintare, quanto come bussola da utilizzare per orientare il lavoro. Dall’ intendere, che si pone in radicale differenza con il capire, sorge l’atto come ciò che eccede l’organizzazione attesa, esso si pone sulle coordinate dell’incalcolabile, dell’imprevedibile, del non saputo, di ciò che può spingere verso la produzione di un’ invenzione.
La sospensione dell’incasellamento [2] concerne anche la messa a distanza e l’ascolto
distratto del sapere istituzionale sul soggetto, il sapere medico, psichiatrico, scolastico. Prenderlo in considerazione sì, ma non come verità sul soggetto, piuttosto come discorso del padrone [3], così J. Lacan chiama uno dei «quattro discorsi» , ovvero discorso dell’identificazione, discorso che è traccia in ogni istituzione, discorso di padronanza che circola e fa collante, soprattutto di fronte all’impensabilità che provoca la psicosi. Infatti dinnanzi al buco del reale, l’istituzione oscilla tra l’angoscia e la ricerca impossibile di un senso, di una causa, di un’aspettativa sul futuro del soggetto, dinamica che la fa inevitabilmente cadere nell’impotenza e nella lamentazione; con il rischio da un lato per gli operatori della chiamata in causa dei fantasmi personali, e dall’altro per l’istituzione di un’identificazione massificata sul versante dell’immobilità e dell’essere inerme.
Il bambino diviene spesso una presenza scomoda, qualora le sue bizzarrìe siano eccessive e dunque difficili da gestire per l’ambiente, o può stagliarsi come presenza assente, ignorata e non vista da chi lo circonda, qualora sia più chiuso e silenzioso. In entrambi i casi, si presta molto bene a essere oggetto della discussione degli altri in merito a un’ enigmaticità insostenibile che per essere negata e ridotta viene incasellata in tappe di progresso attese, apprendimento scolastico, aspettative della famiglia e più in generale correttivamente fatta rientrare nella filosofia della politically correct.
Nella cornice della politically correct, il principio condiviso è un supposto sapere circa il bene del soggetto, con l’effetto di imporre l’applicazione di metodi e tecniche standardizzate, che non tengono conto della singolarità del caso e mettono a tacere la soggettività.
“Se il nevrotico cerca l’oggetto a negli altri, lo psicotico che non ha perduto l’oggetto (a), Lacan dice che ce l’ha in tasca. Questo ha un effetto: che il mondo intero si mette a ruotare intorno a lui, è l’Altro che cerca l’oggetto (a) nel soggetto psicotico, tutti vogliono qualcosa da lui. Lo psicotico ha qualcosa che gli altri vogliono, qualcosa di enigmatico, di terrificante. Quindi come reagisce il soggetto? Per proteggersi, dice –no.” 4
Riuscire a comprendere qualcosa del discorso del padrone operativo nel contesto sociale e istituzionale è fondamentale per misurare la propria posizione nel lavoro di cura. Il discorso analitico, che è il rovesciamento del discorso del padrone, mette al centro la singolarità del soggetto incontrato e si astiene dal ricamare significanti e significati in cui farlo rientrare a priori, per la soddisfazione di una linea terapeutica da confermare e/o per rispondere a un altro sociale che domanda soluzioni. La clinica psicoanalitica sospende la risposta, non detiene soluzioni, e si colloca nella temporalità logica del soggetto in trattamento.
Una posizione, quella psicoanalitica, che più che del sapere, è di estrazione e di partenariato con il soggetto, in cui questi senta che l’altro è lì non contro il suo tentativo singolare di inscriversi soggettivamente, ma disponibile a collaborare a questo atto, cioè essere uno strumento per la sua messa al lavoro.
Creando quell’atmosfera desiderante, quel disordine ordinato al desiderio del bambino, a cui ci si presenta, nell’appuntamento con l’autistico
«i piedi nudi, le mani vuote, soprattutto vuote di sapere; e attrezzati solamente di un desiderio, non di guarire, ma di elevare alla dignità significanti i piccoli oggetti che puntellano il suo mondo» (V. Baio)
Riferimenti bibliografici:
1. B. De Halleux, Qualcosa da dire al bambino autistico, Borla, 2011
2. Si tratta come dice Jacques Lacan di “non incasellarli in anticipo”, conferenza Il Sintomo (1974), in La Psicoanalisi n.2, 1987
3. J. Lacan, Seminario XVII. Il Rovescio della Psicoanalisi, (1969-70), Einaudi, 2001
4. Mariana Otero, À ciel ouvert, film documentario, Francia 2013