
L’articolo si propone di mettere in questione la divisione soggettiva come faglia e il suo rigetto nella contemporaneità. Questione che interroga la psicoanalisi di oggi e nella sua pratica e nella sua politica […]
Ouverture
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Seduta analitica e politica della psicoanalisi
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Je souis
La soggettività della nostra epoca è schiacciata sull’Io del narcisismo. La segregazione identitaria ordinata dall’assunto Je suis ce que dis aspira a sbarazzarsi del Je est un autre di rimbaudiana memoria, che punta invece all’opacità dell’Io e a quell’alterità presente in ciascuno di noi, tenendo a fuoco la divisione soggettiva e la sua faglia beante.
È l’inciampo di Mosè nel fuoco del roveto ardente, in quella voce, la cui enunciazione “Io sono-quel che sono” è punto di scaturigine soggettiva.
«Parola incisa nella parola, […] che segna la traccia», scrive il poeta E. Jabès. Ciascuno in quanto essere parlante porta la traccia del proprio esilio dal “rapporto sessuale che non c’è” ed “erra impaziente di trovare il luogo e la formula” (Rimbaud). In quell’inciampo, non la cerca la trova! Trova un modo singolare di inscriversi simbolicamente nel legame con l’Altro.
Lacan specifica che quel che nella faglia si produce, nel senso pieno del prodursi, si presenta proprio come la trovata:
«ciò per cui il soggetto si sente superato, per cui trova […] rispetto a quanto si aspettava [qualcosa] che ha un valore unico».
E ancora: «l’inconscio si manifesta sempre come ciò che vacilla in un taglio del soggetto, da cui ricompare all’improvviso una trovata che Freud assimila al desiderio – desiderio […] in cui il soggetto si coglie in qualche punto inatteso».
Nell’epoca attuale, l’erranza rimbaudiana più che nella direzione di produrre una trovata va nella direzione di produrre una reallizzazione della traccia di quell’esilio; il diritto all’autodeterminazione di un corpo identitario, a partire da un suo lembo, sembra sia divenuta la via per rispondere all’impasse dell’essere parlante […]
La zona d’interesse
Il film La zona d’interesse, del regista Jonathan Glazer (2023), credo che esemplifichi al meglio l’oggetto voce «che emerge ogni volta che il significante si rompe, per raggiungere l’oggetto [indicibile] nell’orrore». Nel film è lì a indicare l’irrappresentabile dell’orrore di Auschwitz, e il regista non perde mai questa bussola. Ciò che coglie lo spettatore nell’estraneità sono, infatti, il suono e le voci, fuori dall’inquadratura, che vengono da quell’orrore, costanti, in un crescendo di intensità, non rimovibili. Guardare la bellezza del giardino della famiglia Höss, i musei contemporanei del “campo”, la routine di “non pensare” dei comandanti SS, non fa da velo a quella voce “rigurgitata” della Storia,
«ferita di un nome indicibile, piuttosto che nome di una inguaribile ferita».
È la terza effettività reale,troppo reale che il termine campo di concentramento rende parlabile, e che ha precorso i tempi attuali dell’universalizzazione della scienza e del capitalismo, indicata da Lacan nella Proposta sullo psicoanalista della Scuola.
Qualcosa di quell’orrore risuona nella voce super-egoica del discorso contemporaneo: Godi! Produci! Realizzati! che comanda la reallizzazione dell’identità e il rifiuto dell’inconscio, quel radicale “non volerne sapere” che ha effetti di segregazione sempre più estremi. Qui va colto che la fonte e la formazione del Super-io si colloca in (a) come oggetto voce, seguendo ciò che puntualizza Lacan in Dei-Nomi-del-Padre. Per la psicoanalisi si tratta allora di preservare e dare posto a quella umanità singolare a ciascuno, che il soggetto dell’enunciazione evoca, facendo della causa dell’orrore di sapere un desiderio inedito di sapere della propria singolarità.