“Una prima necessità quindi si impone: quei bambini non cessano di agitare
qualcosa. Diremo che non cessano di essere al lavoro. E questa necessità è da
intendere nel senso di Lacan, nel senso cioè di ‘ciò che non cessa di scriversi, ma che,
qui, non riesce a iscriversi’”[1].
Dal 2014 al 2021 la mia pratica analitica si è snodata su due versanti: in studio
privato e in istituzioni scolastiche a fianco di bambini fragili. In istituzione lavoravo
con il bambino affinché producesse un’iscrizione singolare e avviasse una costruzione
nella quale fosse il soggetto, già al lavoro, a prodursi come tale. Poiché “il fiore c’è
ma come un bocciolo gelato” [2], si trattava di fare emergere il soggetto attraverso il suo
consenso a barattare, almeno un po’, il reale con il sembiante, così da entrare con la
sua singolare modalità nel legame sociale. Anche in questi bambini, infatti, vi è la
necessità di un ordine simbolico, di trattare il godimento eccessivo dell’S1, attraverso
la realizzazione di una perdita di godimento; quella perdita grazie alla quale il soggetto
si separa dall’Altro e che causa la messa in moto della dialettica del desiderio, in
quanto metonimia della mancanza-a-essere. Quello che però accade è che nei bambini
fragili questo tentativo avviene nel reale attraverso “un processo in qualche modo
inverso alla simbolizzazione, che non dobbiamo tradurre come ‘realizzazione del
simbolico’ ma come reallizzarsi del simbolico” [3]. Si riscontrano, spesso, tentativi di
mettere un meno al godimento dell’Uno attraverso mutilazioni reali del corpo,
condotte ripetitive e circuiti minimali che non si inscrivono come opposizioni
significanti. Si tratta di interessarsi proprio a quel “ciò che non cessa di non iscriversi”,
che passa sotto silenzio nel discorso scientifico, e che è invece operativo nel discorso
analitico.
Questa esplorazione logica non consiste semplicemente nell’interrogarsi su ciò che impone un limite al linguaggio nella sua apprensione del reale. Nella struttura stessa di tale tentativo di avvicinarlo, nel suo stesso uso, essa dimostra ciò che può esservi di reale ad aver determinato il linguaggio. […] Se è nel punto di una certa faglia del reale – per l’esattezza indicibile, poiché si suppone sia essa a determinare ogni discorso – che si trovano le linee di questo campo, quelle che scopriamo nell’esperienza psicoanalitica, non è forse congruo, probabile, inducibile che quanto la logica ha delineato mettendo in relazione il linguaggio con quello che viene posto come reale può consentirci di reperire certe linee, che sono da inventare?[4]
Cause toujours [5]
Nella contemporaneità i bambini fragili sono particolarmente attenzionati
dal discorso scientifico, dalla valutazione al trattamento, e ciò che arriva come
disturbante viene messo a tacere dalla risposta offerta senza indugi dalla scienza
medica e psichiatrica. La scienza al servizio del discorso capitalista aggira
l’impossibile, il “non cessa di non scriversi”, attraverso un oggetto che lo colmi. È ciò
che fa passare sotto silenzio la singolarità. Nel campo dell’infanzia, appunto, lo
notiamo con la proliferazione delle diagnosi psichiatriche, tramite le quali, in virtù
della corrispondenza lineare tra causa ed effetto, ovverosia tra fenomeno e disturbo
psicopatologico, è placata, illusoriamente e provvisoriamente, l’angoscia dell’Altro –
sociale, familiare, scolastico. Si tratta, per meglio dire, di un congelamento
dell’angoscia, una sua pietrificazione, che allontana l’occasione di una
soggettivazione che permetterebbe di inventare delle risposte singolari. È zittito ciò
che fa problema all’essere parlante, così come è zittito il dire del bambino:
l’impossibile [6], ciò che fa buco, inciampo, quel posto vuoto indicato dai tre puntini di
sospensione nel titolo del Seminario XIX. … o peggio, occupato dal capovolgimento
di pire in dire: poiché “il verbo è precisamente l’unico termine di cui non potete fare
un posto vuoto […], [si tratta piuttosto di] una qualche sostanza, per cui non è dire
bensì un dire” [7]. Un dire, particolare a ciascuno, è ciò che ex-siste ai detti, agli
enunciati, rinvia direttamente alla questione della causa nella sua formulazione “le
pulsioni sono l’eco nel corpo del fatto che ci sia un dire” [8].
Il discorso scientifico ha come unico focus la causa formale, ovvero il
funzionamento; pertanto, non dice nulla del soggetto, mette un tappo sull’enigma del
parlessere, intervenendo solo sulla funzione, cioè sugli effetti di ciò che non va
nell’ordine stabilito dalla legge simbolica, attraverso la cosiddetta “standardizzazione
personalizzata” dei progetti pedagogici e terapeutici, con cui far passare sotto le
mentite spoglie “della personalizzazione la standardizzazione più pura” [9]. Ma il tappo
puntualmente salta, come in una bottiglia di spumante agitata, e in una metonimia
incessante viene trovato un altro tappo che sostituisca il precedente: nuova terapia
farmacologica, nuova diagnosi, nuova classificazione, nuovi test, nuove tecniche di contenimento e trattamento. Le forzature finalizzate al buon funzionamento, con i
fallimenti che ne derivano, hanno effetti anche sugli operatori: poiché la logica
condivisa è di controllo e di potere, il rovescio della medaglia sono burn out,
impotenza e frustrazione. Di fatto quel che resta fuori dalla cornice scientifica si
ripropone incessante: rispondere al funzionamento non dice nulla della causa
soggettiva, che, soprattutto nei casi di fragilità, ha urgenza di essere letta. Qui la lettura
va intesa nella sua versione di miscela eterogenea di significante e lettera, di
significante ed evento di corpo, e l’urgenza come incontro con un’irruzione di reale.
Questi bambini dimostrano l’infondatezza della legge, come sistema e
discorso unico che regoli, attraverso il significante, ciò che è dell’umano, ciò che
sostiene la “sicurezza” di un ordine a cui fare riferimento, e che dimostra invece il suo
resto di reale inafferrabile, trovando per esempio nell’autismo la sua presentazione
più radicale. Nell’ autismo il reale è sempre in gioco nella sua imprevedibilità,
indicibilità ed effetto di orrore, nel suo essere senza senso e senza legge [10].
L’interesse per la causa – causa che si distingue dalla funzione, ovvero “da quel che c’è di
determinante in una catena, in altri termini dalla legge” [11] – si trova a fondamento del
discorso analitico già da Freud nella costruzione della sua epistemologia. Prendere
come bussola la causa sposta l’asse dall’universalità alla singolarità dell’uno per uno.
Ogni volta che parliamo di causa, c’è sempre qualcosa di anti-concettuale, […] [cioè che] tra la causa e ciò che essa colpisce, c’è sempre qualcosa che zoppica. […] c’è un buco, […] c’è causa solo di ciò che zoppica. Ebbene! l’inconscio freudiano si situa in questo punto. […] Freud […] da dove egli parte – dall’ Eziologia delle nevrosi – e cosa trova nel buco, nella fessura, nella faglia caratteristica della causa? Qualcosa dell’ordine del non-realizzato [12].
Si tratta precisamente dell’ombelico dei sogni che troviamo in Freud: una
cicatrice, stigmate dell’inconscio, traccia lasciata dal significante nel corpo, punto
insondabile, Unnerkant: impossibile a riconoscersi. La causa per la psicoanalisi è
“causa materiale” [13], ovvero entrata nel linguaggio come materiale pulsionale,
incidenza del significante “in quanto agisce anzitutto come separato dalla sua
significazione” [14]. È quell’ un dire, singolare a ciascuno.
Questo è proprio il punto da cui esce il filo, ma questo punto è chiuso come è chiuso il fatto
che egli è nato in quel grembo, e non altrove, di cui c’è nel sogno stesso la stigmate, poiché l’ombelico è una stigmate. […] Questo essere placentare ne conserva una traccia, che è segnata a livello stesso di simbolizzazione. […] C’è qualcosa per cui non è per niente che si riduce a una cicatrice, a una zona del corpo che fa un nodo […] e non è più puntabile al suo posto, ovviamente, poiché lì c’è lo stesso spostamento che è correlato alla funzione e al campo della parola. […] Nel campo della parola, c’è qualcosa che è impossibile da riconoscere. […] L’Uno, a rigor di termini, designa l’impossibilità, il limite.
È là […] che c’è qualcosa che, nel dicibile, è metaforicamente paragonabile a quello che ne è nella
pulsione. Poiché si tratta di ciò che potremmo chiamare l’essenza del nodo, a livello del simbolico, è annodato, non più in forma di orifizio, ma di una chiusura. […] in fin dei conti, durante questo battito tra l’orifizio e il nodo, tra l’identificazione del buco con un punto annodato, ecco cosa mi ha spianato la strada alla formula che io do specificamente parlando di questo essere che caratterizziamo di avere la parola. […] Se parlo di Immaginario, di Simbolico e di Reale poiché è da lì che sono partito, torno a dire che il Reale si specifica anche come Uno nel senso di un impossibile [15].
“L’ombelico del sogno è un buco” [16], risponde Lacan alla questione posta da
Marcel Ritter durante una Giornata di Cartelli a Strasburgo nel 1975; risposta che mi
conduce alla questione posta nel titolo Un bambino […] non parla? e di ciò che si
trova a fondamento della pratica con bambini fragili. Infatti, per chi è orientato dalla
psicoanalisi lacaniana si tratta di tenere come bussola del lavoro proprio quelle tracce,
stimmate singolari che il bambino porta, e servirsene per aprire una pratica del buon
incontro. È ciò che si trova a fondamento dell’affermazione che questi bambini sono
nel linguaggio, secondo la formulazione di parlessere dell’ultimo Lacan, e che ci si
può lavorare affinché si produca un posto del soggetto; lì dove tutti scommetterebbero
che di soggetto non ce n’è, come una certa deriva psichiatrica e pedagogica sostiene
oggi ancora più di ieri. Per ciò, tale pratica rende prossimo e radicale l’incontro con
quel che è al cuore dell’etica della psicoanalisi, quella logica dell’impossibile che
Freud indicava già in Analisi terminabile e interminabile e che è a fondamento della
trasmissione stessa della psicoanalisi.
Dallo stigma alle stigmate
Il posto che ha quell’un dire, quell’impossibile, che si presenta così […],
traccia la divisione tra il discorso scientifico e il discorso analitico. Nel discorso
scientifico passano sotto silenzio le tracce singolari che il bambino fragile porta
incessantemente con le sue lallazioni, urla, parole senza senso, eventi di corpo, silenzi,
che sono piuttosto raccolte come simboli di stigma, cioè di qualcosa che spezza
un’immagine del bambino perfettamente coerente, fino a divenirne parte “dell’identità
[…] attorno a cui si aggrovigliano, ammassano come zucchero filato, un’unica e
ininterrotta sequenza documentata di elementi che costituiscono la sostanza
appiccicosa a cui si attaccano gli altri fatti”[17]. L’ identità chiude la partita con il nuovo,
con l’inciampo, con la faglia del parlessere, e di conseguenza con la scommessa che
del soggetto possa prodursi proprio da quelle tracce.
L’uso della diagnosi psichiatrica, per cui si sente spesso M. è autistico, S. è
DOP, G. è ADHD, marca un passaporto che fa dell’essere esiliati – in quanto
parlesseri – una segregazione che pietrifica: “passaporto come origine ridotta al minimo concreto, al minimo comune denominatore, che sostituisce la singolarità di
una storia, la singolarità di un enigma” [18].
Nel discorso scientifico attuale, la storia [19],ciò che si intende come iscrizione per ciascuno, non ha posto, e analogamente non trova posto l’ascolto di ciò […] che i bambini dicono.
La scienza ha fatto indiscutibilmente affidamento sul numero come tale, sull’Uno che possiamo qualificare come individuale e su quanto si enuncia nel registro della logica del numero. Da tale
prospettiva scientifica non c’è veramente ragione di interrogarsi sull’esistenza […]. Quanto al reale […]
il discorso analitico è fatto per ricordarci che […] [vi] accediamo soltanto in e attraverso
quell’impossibile che è definito unicamente dal simbolico. […] La scienza ci fornisce il materiale20.
Nella pratica analitica si offre quel luogo dell’Altro che dà un posto a quel
[…], a quelle tracce inaccessibili, affinché da lì, nello spazio di una contingenza, il
soggetto possa scrivere una parola, una minima articolazione, una catena, una
creazione, una via che renda quel posto vuoto generativo. È una scommessa e una
chance. “Poiché non si tratta di fare dell’origine un destino. Ma di servirsi
dell’inaccessibilità dell’origine per decidere del suo futuro. Un futuro creato piuttosto
che un futuro imposto da un’origine immemorabile” [21]
.
Si tratta di passare dalla dettatura-dittatura [22] dell’universale alla scrittura, lì
“dove il singolare della mano schiaccia l’universale” [23].
Affermare infatti sia della psicoanalisi che della storia che in quanto scienze sono scienze del
particolare, non vuol dire che i fatti con i quali hanno a che fare siano puramente accidentali […]. Gli eventi si generano in una storicizzazione primaria, in altri termini la storia si fa già sulla scena, dove la si reciterà una volta scritta, nel foro interno come nel foro esterno [24].
Ho iniziato da qui, da un lavoro in cui vi è la necessità di saperci fare con il
buco e la non esistenza dell’Altro. È una pratica clinica che insegna a oscurarsi come
soggetti e a lavorare nella posizione analitica, cioè a saper-ci-essere per il lavoro
creativo del soggetto.
Ne resta la scrittura, nel 2017, della mia tesi di specializzazione, attraverso
l’insegnamento che ho tratto dal lavoro con il piccolo N., il mio primo incontro nella
pratica analitica con bambini fragili, con un atto che, letto in après-coup, ha scandito
il mio traghettamento al legame con la Scuola Lacaniana di Psicoanalisi e la presa di
parola nel Campo Freudiano al Congresso PIPOL 9 dal titolo L’inconscio e il cervello:
niente in comune.
Riferimenti bibliografici:
1. V. Baio, La funzione degli educatori all’Antenna, in B. de Halleux (a cura di), “Qualcosa da dire” al
bambino autistico, Borla, Roma 2011, p. 88.
2. A. Di Ciaccia, Postfazione, in ivi, p. 231. A. Di Ciaccia riprende l’espressione dello sviluppo di un fiore giapponese cara a Lacan per indicare lo sviluppo della struttura del soggetto nello schema R, trattato nel testo Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi [1957-1958], in Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. II.
3. J.-A. Miller, Riferimento. La matrice del trattamento del bambino del lupo, in B. De Halleux (a cura
di), “Qualcosa da dire” al bambino autistico, cit., p. 24. Reallizzarsi è un neologismo risultante dalla
combinazione tra reel (reale) e realisation (realizzazione): reéllisation [N.d.A.].
4. J. Lacan, Il Seminario. Libro XIX. … o peggio [1971-1972], Einaudi, Torino 2020, p. 14.
5. Esergo in J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi [1953], in Scritti,
Einaudi, Torino 1974, vol. I, p. 240.
6. “Facendo problema, il rapporto sessuale, che non c’è – nel senso che non lo si può scrivere –, questo rapporto sessuale determina tutto ciò che si elabora di un discorso […] tronco […]”, “[ma ciò] non impedisce il legame, anzi!, e però gli detta le sue condizioni”, J. Lacan, Il Seminario. Libro XIX. …o peggio, cit., p. 17 e p. 13.
7. Ivi, p. 6.
8. J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo [1975-1976], Astrolabio, Roma 2006, p. 16.
9. É. Laurent, La battaglia dell’autismo, Quodlibet, Macerata 2013, p. 146.
10. Cfr. J. Lacan, Il Seminario. Libro XXIII. Il Sinthomo, cit., p. 126.
11. J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi [1964], Einaudi,
Torino 2003, p. 23.
12. Ivi, pp. 23-24.
13. J. Lacan, La scienza e la verità [1966], in Scritti, Einaudi, Torino 1974, vol. II, p. 879.
14. Ivi, p. 880.
15. J. Lacan, «L’ombilic du rêve est un trou», Jacques Lacan répond à une question de Marcel Ritter, in La Cause du Désir, n. 102, Navarin Éditeur, Paris 2019, pp. 36-37 [T.d.A.].
16. Ivi, p. 35.
17. E. Goffman, Stigma. Note sulla gestione dell’identità degradata, Ombre corte, Verona 2018, p. 81.
18. F. Ansermet, L’origine. Qu’est-ce que ça change?, Labor et Fides, Genève 2024, p. 73 [T.d.A.].
19. “La storia è un’altra dimensione da quella dello sviluppo, – e […] è un’aberrazione il tentare di
risolverla in esso”, in J. Lacan, La scienza e la verità, cit., p. 880.
20. J. Lacan, Il Seminario. Libro XIX. … o peggio, cit., pp. 136-137.
21. F. Ansermet, L’origine. Qu’est- ce que ça change?, p. 77, [T.d.A].
22. L’origine tardo latina della parola dettatura è dictatura (dittatura).
23. J. Lacan, Lituraterra [1971], in Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 14.
24. J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, cit., p. 254.