Entro nel campo della psicoanalisi dallo scritto “Lutto e melanconia” di Sigmund Freud, che arriva puntuale all’ora di un frammento di storia personale.
Fogli sparsi, staccati, che aprivano la faglia dell’incomprensione. Una giovanissima liceale cercava qualcosa tra quelle righe oscure, trova una via da seguire, in solitudine, la via del malinteso.
In “Le Malentendu”, nel giugno 1980, J.Lacan afferma:
«Tutti voi, cos’altro siete se non dei malintesi? Non c’è altro trauma: l’uomo nasce malinteso. Il malinteso c’è già prima. Il soggetto fa parte del «balbettìo» dei suoi ascendenti, il che significa che ne fa parte e lo trasmette a sua volta. Ciò che voi sostenete a titolo di inconscio, ossia il malinteso, si radica là.» [1]
Dico “entro”, perché da lì a qualche anno inizierò l’analisi e un battito dopo la mia formazione alla psicoanalisi. L’attesa dettata dal tempo dell’Altro diveniva voce di corridoio da non ascoltare, per cui, dal terzo anno di università sostenevo esami di psicologia e contemporaneamente svuotavo il sapere universitario ai seminari sull’insegnamento di J. Lacan e di S. Freud. Il discorso della psicoanalisi risuonava come una chiamata, a cui rispondevo senza indugi. Facevo esperienza di una particolare incomprensione che spingeva il desiderio; bucava il discorso dell’Altro primordiale, in cui invece dominava il silenzio di un sapere certo, senza parole.
Restavo però ai bordi della comunità analitica, senza entrare a mio nome, tra il banco e il sotto-banco, effetti di un sintomo che trat-teneva, in arresto, un movimento deciso. Ci è voluto del tempo per spostarmi da lì. Lo scritto “Lutto e melanconia” resta e scandisce, come un pendolo, gli spostamenti di discorso, producendo ad ogni rintocco un suono e un effetto diverso.
Toc Toc
Busso alla Scuola Lacaniana di Psicoanalisi nell’anno 2020, in un periodo storico che si allinea con l’inconsistenza dell’Altro incontrata in analisi.
L’inconsistenza, il non c’è garanzia, mi lascia il respiro per presentarmi a mio nome, crea lo spazio per un desiderio più vivo, meno mortificato, meno imbarazzato. Si apre la possibilità di creare un legame che non cancella l’esistenza del soggetto, che non ne fa un oggetto a servizio dell’Uno. Quel legame che dà un posto al particolare, al singolare, all’alterità. Da un lato la morte, il crollo dei riferimenti, dall’altro la creazione.
L’etica della psicoanalisi mette al bando una qualsivoglia moralità, manierismo, impianto
valoriale; si pone al di là del bene e del male e ciò si impara nell’esperienza analizzante.
Qualcuno diceva che l’artista per creare deve fare piazza pulita. Ex nihilo, dice Lacan nel Seminario VII, L’etica della psicoanalisi, a proposito del vasaio che crea attorno a un vuoto.
“La via d’uscita è dunque paradossalmente nella separazione, in una separazione da sé stessi, in una separazione dall’origine. Si può av-venire solamente a partire da ciò che era, ma per av-venire, non si può rimanere incollati a ciò che era, incollati all’origine. È la separazione che permette di av-venire come soggetto, ma che permette anche d’incontrare l’altro al di là delle origini di ciascuno. Una separazione con sé stessi per incontrare l’altro: questa sarebbe la via del malinteso di vita che si oppone al
malinteso di morte, caratterizzato dal fatto che l’identità è venuta a prendere il posto
della beanza dell’origine.” [2]
Da un malinteso di morte a un malinteso di vita. Dalla melanconia al lutto. Entro dunque nella SLPcf dalla porta dell’analisi e dalla porta del cartello. All’indirizzo Scuola invio due lettere: prima lo scritto di fine cartello sull’etica della psicoanalisi, poi la domanda di entrare. La Scuola riceve, risponde Sì. Facevo esperienza del lavoro di cartello, con instancabile entusiasmo, già da diversi anni. Di che si tratta? Un lavoro sul non sapere che spinge a una ricerca di sapere, non di meno spinge a un dirne qualcosa lì dove si può, non per rispondere a un dovere: di impegno, di aspettativa, di promessa, ma per portare alla luce il prodotto di un lavoro.
Per portare alla luce ci vuole desiderio, ma anche coraggio.
Il coraggio di disallinearsi dalla questione del riconoscimento.
Tre battute/un battito
Prima battuta: desiderio di riconoscimento; seconda battuta: riconoscimento del desiderio;
terza battuta: passare al vuoto del vasaio, a ciò che causa…
Dalla prima alla seconda battuta, un effetto sorpresa! Nelle tenebre un lampo di luce su un
tragitto già iniziato. Mi ricordo che quando portai in cartello la scoperta di quella differenza,
il +1 non mancò di sottolineare con un generoso: “Ecco, è questo!!” Dalla seconda alla terza battuta, silenzio… Un vuoto sperimentato in cartello come mai prima di allora, in due anni di lavoro solo qualche parola. Proprio da quel vuoto si verificò, in après coup, l’eppur si muove. Quarto, un battito: la produzione dello scritto “Un ritmo straniero”, indirizzato alla Scuola Lacaniana di Psicoanalisi. Così mi sono presentata.
In “La Scuola e il suo psicoanalista”, J.A.Miller sottolinea:
“la ripetizione della parola “lavoro” copre la mancanza di un altro significante che non è presente nell’Atto di fondazione. Dire che la Scuola è un organo di lavoro, significa mettere in chiaro che non si tratta di un organo di riconoscimento degli analisti. Se nella Scuola opera un certo riconoscimento è relativo al lavoro prodotto.” [3]
Lutto e partecipazione
In D’Écolage Lacan indica che c’è da attraversare un lutto rispetto a un’École- Colle, una
Scuola-Colla: “Il lutto è un lavoro, è quello che si legge in Freud”. La colla è ciò che ritroviamo nell’oscenità immaginaria dell’effetto di gruppo,
“l’amore-odio è ciò di cui uno psicoanalista riconosce l’ambivalenza, ossia la faccia unica della striscia di Möbius- con la conseguenza per cui nella «vita» di gruppo sta a indicare sempre e soltanto l’odio” [4],
e nella melanconia:
“quando l’amore per un oggetto si è rifugiato
nell’identificazione narcisistica- ma si tratta di un amore a cui non si può rinunciare
nonostante si sia rinunciato all’oggetto stesso- accade che l’odio si metta all’opera contro
questo oggetto.” [5]
Il rifiuto del lavoro del lutto non risparmia dai suoi effetti, sia nel gruppo sia nel singolo, che “vanno a discapito dell’effetto di discorso atteso dall’esperienza quando essa è freudiana” (J. Lacan, Lettera di Dissoluzione). Fare il lutto di ciò che incolla, della credenza nel c’è rapporto sessuale, nel c’è rapporto tra l’Uno e l’Altro, tra analizzante e Scuola, lutto del sempre mancato “tu non mi guardi mai là dove io ti vedo. Inversamente, ciò che guardo non è mai ciò che voglio vedere”. [6]
C’è da se-decoller (scollarsi) per entrare in una Scuola di Psicoanalisi, e partecipare è una
versione del dire di sì a un lavoro del lutto, che facendo vuoto produce quel Campo in cui vi è apertura ad una messa al lavoro. Quel “Campo – in cui ciascuno avrà modo di dimostrare quello che fa del sapere che l’esperienza deposita” (J. Lacan, D’Écolage).
Smarcandosi dall’ostilità super-egoica è possibile accogliere e formulare un invito, che non ha esito già scritto, se non quello di farne esperienza ogni volta, ascoltando le testimonianze dei colleghi della Scuola, provando a dirne qualcosa. Seguendo, passo passo, i movimenti del discorso psicoanalitico. Tale implicazione, da Partecipante alle attività della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, mi smuove una leggerezza straniera nell’esporre il prodotto di un lavoro, che provenga dalla pratica clinica e dalle esperienze di cartello; con effetti sul lavoro clinico, sul transfert di lavoro e verso la Scuola.
Desiderio, coraggio, leggerezza
In una conferenza a Buenos Aires, J. Alain Miller ci indica una bussola nella questione del
coraggio, mettendo in rapporto coraggio e castrazione.
“Il coraggio si trova sempre nell’attraversamento della barriera dell’orrore alla femminilità. C’è una vigliaccheria delle donne nell’orrore della femminilità, che ha a che fare con la protezione della loro immagine e alla fine della bellezza della loro immagine, come ultima protezione prima dell’orrore della castrazione. Questa barriera che costituisce il culto dell’immagine bella, a ciò che si suppone voglia essere per almeno un uomo – che rende anche il culto dell’immagine – è ciò che rende regolarmente più difficile per le donne che per gli uomini parlare pubblicamente. La parola in pubblico significa sacrificare parte della protezione dell’immagine, del feticcio dell’ immagine.” [7]
Bibliografia:
1. J. Lacan, “Le malentendu” (1980), Ornicar?, n. 22-23, 1981, p.12.
2. F. Ansermet, “Dal desiderio di un figlio ai malintesi dell’origine” (19/02/2021)
www.pipol10.eu.
3. J.A.Miller, “La Scuola e il suo psicoanalista”, Introduzione alla clinica lacaniana,
Astrolabio, Roma 2012, pp. 159-175.
4. J. Lacan, “Lo Stordito”, Altri Scritti, Einaudi, Torino 2013, p.473.
5. S. Freud, “Lutto e melanconia”, Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti (1915-1917),
Opere vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino 2020, p.110.
6. J. Lacan, Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964),
Einaudi, Torino 2003, p.101.
7. J.A. Miller, Conferencias porteñas 3, Editorial Paidós, 2010