
Parlare a un’analista è acconsentire a una perdita: l’attaccamento ferreo a ciò che è causa di sofferenza si parla, si ripete, si mette in questione, si problematizza, se ne fanno infiniti giri attorno fino a farlo divenire inconsistente così da lasciare posto per qualcos’altro. Che ci voglia tempo non c’è da stupirsi poiché si tratta di un attaccamento prossimo all’ “ideale dell’ostrica”, che troviamo al centro della scrittura di G. Verga, quell’attaccamento al proprio Altro familiare che diviene religione di vita.
La difesa del proprio Altro è all’ordine del giorno di ciascun soggetto, perché è il luogo in cui è nato e da cui, volente o nolente, è marchiato. Ma un conto è restare annientati da una difesa feroce, mantenendosi in una posizione di alienazione e dipendenza totalizzante, un altro conto è stabilirne un rapporto all’insegna della separazione, attraverso la quale il soggetto può dare voce alla sua specificità, alla sua intima originalità. Essere separato dall’Altro vuol dire accordarmi alla mia nota, cantare ciò che è per me. Il lavoro della separazione è sempre un lavoro che avviene attraverso la parola.