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2 Aprile: Annodamenti
clinica dell'autismo
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“[..] Ogni essere parlante ha, di diritto, la dignità
​inerente al fatto di essere soggetto” ​
(A. Di Ciaccia)

La clinica dell’autismo convoca in modo radicale l’etica del terapeuta, tra la ripetizione dell’Uno, monolitico e identico a se stesso, e i pezzi staccati di un reale fuori senso.

I pezzi scompaginati [1] che porta l’autistico sono di un reale che egli cerca di iscrivere, di bordare, alla ricerca di un modo singolare per annodarsi. Un trattamento psicoanalitico lacaniano mira proprio a sostenere ciò che, per quel soggetto, può scriversi tra i pezzi staccati. La condizione di incontrare qualcuno che si presti a far sì che ci sia per lui a incarnare un punto di capitone nell’annodare il suo sinthomo, ovvero “un annodamento tramite elementi non-standard, elementi rari, elementi che appartengono soltanto al soggetto”[2] , attraverso una pratica di lavoro che si situa su due strategie cardine: la regolarità e l’invenzione.

Il sinthomo, segno della singolarità del soggetto, è il modo del soggetto di saperci fare con il reale del godimento, temperandolo e bordandolo.

Riporto un estratto dell’intervento che ho tenuto al Congresso Europeo di Psicoanalisi Pipol9 “L’inconscio e il cervello: niente in comune”, a Bruxelles nel Luglio 2019, a proposito del lavoro con un bambino e i suoi genitori:

«Con i genitori di N. tenevo un discorso che non si poneva in rivalità con il discorso medico-neurofisiologico ma si collocava altrove, in un luogo Altro che non era de La risposta, de La soluzione, nè de la promessa di, ma che piuttosto offriva con costanza i divini dettagli del soggetto, metteva al lavoro il non-sapere perché qualcosa si muovesse.
In rapporto a ciò, l’Altro genitoriale abbassava, via via, le barricate dell’illusoria esistenza di una possibile restitutio ad integrum e del suo contraltare nel tutto-sapere sul figlio come oggetto-corpo della scienza; e imboccava una terza via, quella di un non-sapere in cui faceva posto ad N., iniziando a credere che da lui stesso potesse venirne ciò che lo riguardava soggettivamente. Così alla fine del primo anno di lavoro, N. iniziò a dire il suo nome, e a sorridere, segno di una sua umanizzazione e che stava dicendo di sì all’Altro e al posto soggettivo che era venuto a prodursi, con meraviglia e riconoscimento paterno.»

La clinica derivante dalla psicoanalisi sposa l’etica del saper non sapere.
Si tratta come dice J. Lacan nella conferenza Il Sintomo di “non incasellarli in anticipo”[3], egli riprende la raccomandazione di Freud, il quale voleva che ascoltassimo indipendentemente dalle conoscenze acquisite, che fossimo sensibili a quello con cui abbiamo a che fare, e cioè alla particolarità del caso, lasciando lo spazio affinché il soggetto emerga, al riparo da un troppo di domanda e di interpretazione dell’altro.

Per concludere (ma solo per ricominciare, si intende?!), un invito a guardare il cortometraggio “Mon petit frère de la lune”, in cui Coline, una bambina, racconta con le sue parole e le sue intonazioni, del fratellino Noè “che guarda sempre il cielo” e del “con il mio fratellino abbiamo inventato una lingua”, sotto la regia del loro padre Fredéric Philibert.

​Bibliografia di riferimento:
[1] J. Lacan, Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, p.565.
[2] V. Baio, “Autismo”, in Scilicet del Nome-del-Padre. Testi preparatori al Convegno, Roma 2006, p.54.
[3] J. Lacan, Conferenza di Ginevra, in “Il sintomo” (1974), in La Psicoanalisi n.2, op.cit., p.16.

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