“[..] Ogni essere parlante ha, di diritto, la dignità
inerente al fatto di essere soggetto”
(A. Di Ciaccia)
La clinica dell’autismo convoca in modo radicale l’etica del terapeuta, tra la ripetizione dell’Uno, monolitico e identico a se stesso, e i pezzi staccati di un reale fuori senso.
I pezzi scompaginati [1] che porta l’autistico sono di un reale che egli cerca di iscrivere, di bordare, alla ricerca di un modo singolare per annodarsi. Un trattamento psicoanalitico lacaniano mira proprio a sostenere ciò che, per quel soggetto, può scriversi tra i pezzi staccati. La condizione di incontrare qualcuno che si presti a far sì che ci sia per lui a incarnare un punto di capitone nell’annodare il suo sinthomo, ovvero “un annodamento tramite elementi non-standard, elementi rari, elementi che appartengono soltanto al soggetto”[2] , attraverso una pratica di lavoro che si situa su due strategie cardine: la regolarità e l’invenzione.
Il sinthomo, segno della singolarità del soggetto, è il modo del soggetto di saperci fare con il reale del godimento, temperandolo e bordandolo.
Riporto un estratto dell’intervento che ho tenuto al Congresso Europeo di Psicoanalisi Pipol9 “L’inconscio e il cervello: niente in comune”, a Bruxelles nel Luglio 2019, a proposito del lavoro con un bambino e i suoi genitori:
«Con i genitori di N. tenevo un discorso che non si poneva in rivalità con il discorso medico-neurofisiologico ma si collocava altrove, in un luogo Altro che non era de La risposta, de La soluzione, nè de la promessa di, ma che piuttosto offriva con costanza i divini dettagli del soggetto, metteva al lavoro il non-sapere perché qualcosa si muovesse.
In rapporto a ciò, l’Altro genitoriale abbassava, via via, le barricate dell’illusoria esistenza di una possibile restitutio ad integrum e del suo contraltare nel tutto-sapere sul figlio come oggetto-corpo della scienza; e imboccava una terza via, quella di un non-sapere in cui faceva posto ad N., iniziando a credere che da lui stesso potesse venirne ciò che lo riguardava soggettivamente. Così alla fine del primo anno di lavoro, N. iniziò a dire il suo nome, e a sorridere, segno di una sua umanizzazione e che stava dicendo di sì all’Altro e al posto soggettivo che era venuto a prodursi, con meraviglia e riconoscimento paterno.»
La clinica derivante dalla psicoanalisi sposa l’etica del saper non sapere.
Si tratta come dice J. Lacan nella conferenza Il Sintomo di “non incasellarli in anticipo”[3], egli riprende la raccomandazione di Freud, il quale voleva che ascoltassimo indipendentemente dalle conoscenze acquisite, che fossimo sensibili a quello con cui abbiamo a che fare, e cioè alla particolarità del caso, lasciando lo spazio affinché il soggetto emerga, al riparo da un troppo di domanda e di interpretazione dell’altro.
Per concludere (ma solo per ricominciare, si intende?!), un invito a guardare il cortometraggio “Mon petit frère de la lune”, in cui Coline, una bambina, racconta con le sue parole e le sue intonazioni, del fratellino Noè “che guarda sempre il cielo” e del “con il mio fratellino abbiamo inventato una lingua”, sotto la regia del loro padre Fredéric Philibert.
Bibliografia di riferimento:
[1] J. Lacan, Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, p.565.
[2] V. Baio, “Autismo”, in Scilicet del Nome-del-Padre. Testi preparatori al Convegno, Roma 2006, p.54.
[3] J. Lacan, Conferenza di Ginevra, in “Il sintomo” (1974), in La Psicoanalisi n.2, op.cit., p.16.